di Giovanni Petrolini
Tra gennaio e febbraio nelle nostre campagne si ammazzava. E si facevano salumi e salami. E già a marzo nelle giornate di sole, dalle finestre aperte delle case, qua e là si cominciava a vederli appesi ad asciugare ai travetti delle camere da letto, come monili. Odorosi familiari gioielli del made in Italy.
È forse questo il momento dell’anno più adatto – mi son detto – per parlarne un po’. Da curioso della vicenda delle nostre parole e con la speranza di aggiungere un minimo contributo per la storia della nostra gloriosa salumeria.
Quando anche i prosciutti erano salami
Comincerei allora col dire – se mai ce ne fosse bisogno – che sull’etimologia dell’italiano salame non ci piove. La parola discende certamente dal latino medievale salamen derivato in suffisso da sal ‘sale’. Il suffisso –amen già nel latino classico serviva a formare parole di significato collettivo, per esempio il latino calceamen ‘ogni tipo di calzatura’ (da calceus ‘calzatura’); il latino lateramen ‘tutto ciò che è fatto di mattoni’ (da later ‘mattone’), (vedi G. Rohlfs, Grammatica storica della lingua italiana e dei suoi dialetti, trad. it., vol. III, Torino 1969, p. 407). Anche il latino medievale salamen, derivato in –amen da sal ‘sale’, designò dunque originariamente ‘ogni tipo di cibo conservato col sale o sotto sale (carne o pesce che fosse)’ e lo stesso significato continuò ad avere anche il suo continuatore italiano salame, sino a quando lo restrinse per lo più a quello, pur sempre generico, di ‘qualsiasi prodotto di carne suina, lavorata e conservata col sale’. E la parola – si badi bene – in buon italiano (quello letterario raccomandato dai Vocabolari) almeno sino alla prima metà dell’Ottocento continuò ad avere solo e soltanto questo significato generico. Per secoli dunque anche i prosciutti, le mortadelle, le salsicce ecc. fecero parte della grande famiglia dei salami.
Parmensi le sue prime attestazioni
A questo punto una domanda sorge spontanea: ma salame, nel suo significato oggi più specifico e più comune, a quando risale?
Sembra che la prima attestazione di ‘salame’ nel suo significato oggi a noi tutti familiare risalga al 1436, quando Niccolò Piccinino condottiero al soldo del Duca di Milano e signore tra l’altro di Albareto, Borgo Val di Taro, Borgonovo Val Tidone, Calestano, Castell’Arquato, ordinò che gli procurassero “porchos viginti a carnibus pro sallamine” ‘venti maiali da carni per salame’.
Se dico “sembra” è perché mi sfiora un dubbio. Che quel carnibus pro sallamine potesse riferirsi ancora genericamente a ‘carni per salume’, vale a dire ‘carni per fare salumi’ e non, più specificamente, a ‘carni per fare salami’.
Comunque sia, se anche la prima attestazione di ‘salame’ nel suo significato moderno non fosse quella latina medievale del 1436 appena ricordata, sarebbe pur sempre, con ogni probabilità, d’area parmense. Essa precederebbe, seppur di poco, sia quella farnesiana di Vincenzo Cervio che ne parla nel suo trattato Il trinciante, Ia edizione Venezia 1581, (vedi Arte della cucina, vol. II, Milano 1966 a cura di Emilio Faccioli), sia quella del piacentino Girolamo Parabosco nella sua commedia I contenti, Venezia 1560, (vedi: GDLI – Grande Dizionario della Lingua Italiana di Salvatore Battaglia).
Salami parmigiani per la figlia dell’Imperatore
Mi riferisco alla testimonianza di Giorgio Franchi, parroco di Berceto, che tra le sue nove (‘notizie, news’) riferite nel 1550 sul recto della carta 55 del suo manoscritto, oggi conservato acefalo nella Biblioteca Palatina di Parma (Ms. parm. 1184), racconta di aver visto, in una delle sue rare discese in città (quella in occasione della solenne entrata in Parma di Margherita d’Austria venuta in sposa al duca Ottavio Farnese), che tra i prodotti tipici offerti in dono dalla comunità di Parma alla figlia dell’Imperatore Carlo V, c’erano, tra gli altri “…dui [gran piati] de salame, dui de persuti…”. Segno evidente (nella particolare sequenza) che già allora nel Parmense con salame s’intendeva non un generico salume ma un salume dalla fisionomia particolare e caratteristica, ben diverso per es. da quei persuti ‘prosciutti’ nominati immediatamente dopo.
Ed è molto probabile che ‘salame’, nel significato attuale del termine, nella parlata parmigiana fosse già comune ben prima del Quattrocento e del Cinquecento. Come si sarebbero chiamati altrimenti nel volgare locale, già nel Duecento, se non salami (o salàm nella più schietta parlata locale), quei salumi imbudellati e lunghi immortalati all’interno del Battistero di Parma nel celebre bassorilievo antelamico relativo al segno zodiacale dell’Acquario.
Salame nell’italiano antico dell’uso letterario e nell’ italiano antico dell’uso parmigiano
A favore dell’origine parmigiana (o parmense) dell’italiano salame come denominazione di quel particolare tipo di salume che tutti conosciamo, depone anche un sicuro dato lessicografico. Il fatto che Ilario Peschieri nel suo Dizionario parmigiano-italiano (sia nell’edizione del 1828 sia in quella del 1841) traduceva il parmigiano salàm non con salame ma con “Salsicciotto s.m. Carne di majale minuzzata, addobbata con sale e droghe, messa a stagionare nelle intestina dell’animale stesso o d’altro”. Perché? Perché ancora ai tempi suoi in buon italiano (cioè nel toscano letterario) con salame s’intendeva qualcosa di notevolmente diverso da quel che voleva dire il dialettale parmigiano salàm. In buon italiano la parola salame aveva ancora comunemente il significato collettivo, antico e generico, di ‘salume’, cioè ‘qualsiasi tipo di carne, e talvolta anche di pesce, conservato sotto sale’. E di questo il Peschieri era perfettamente consapevole. Egli stesso osservava che “la parola Salame viene definita in genere per Carne salata, come Salsicciotti, Prosciutti, Mortadelle ecc.”. Chiarito questo punto, per evitare gli strali dei puristi, si vedeva costretto, obtorto collo, a tradurre il parmigiano salàm non con salame, come certamente gli sarebbe venuto spontaneo di fare assecondando l’uso parmigiano, ma con “Salsicciotto”. Il che rivela che ancora ai tempi del nostro lessicografo la parola salame, nel suo specifico significato gastronomico, oggi comune ed esclusivo, non aveva ancora trovato la meritata accoglienza nei vocabolari della nostra lingua. Soltanto qualche anno più tardi, il Malaspina, nel suo Vocabolario, avrebbe osato tradurre in italiano il parmigiano salàm non solo con “Rocchio, Salsiccia, Salsicciotto” ma anche con “Salame”. Segno evidente che intorno alla metà dell’Ottocento la parola cominciava timidamente ad essere sdoganata anche in italiano nel suo significato parmigiano.
L’attuale italiano salame. Un parmigianismo semantico
Ci sono insomma buoni motivi per ritenere che il nome di quel salume oggi comunemente noto in Italia come salame rappresenti – per dirla con parole difficili – un parmigianismo semantico dell’italiano, cioè una parola che nell’italiano comune ha assunto il significato che fu proprio di salame nella sua accezione originariamente parmigiana. Va da sé che questa parmense antica specializzazione della parola salame nel significato parmigiano non si sarà verificata per caso ma grazie all’eccellenza, al prestigio e alla rinomanza (‘rinominanza’) di un particolare salame parmigiano, nella fattispecie di quell’eccezionale prodotto della salumeria parmense che fu, ed è, al salàm äd Flén, il salame di Felino. Così come alla sua affermazione a livello nazionale avrà contribuito in modo decisivo l’“energia operosa” (come avrebbe detto un grande linguista come Graziadio Isaia Ascoli) della piccola industria salumiera locale.
Il salame di Felino, il salame per eccellenza
In effetti quello di Felino è ancor oggi nell’italiano comune il salame per antonomasia, o, come appunto s’usa dire, “per eccellenza”. Il “principe” dei salami.
Al quale nelle principesche cantine del castello della cittadina di Felino è stato dedicato di recente un meritatissimo museo.
È il più rinomato tra i salami d’Italia. Insignito recentemente anche dall’Unione Europea del marchio IGP (Indicazione Geografica Protetta). E non solo a Parma e in Emilia ma in gran parte d’Italia per essere identificato solitamente non richiede alcun “determinante”, quasi sempre necessario invece quando ci si riferisca ad altre, pur valorose, varietà di salami, quali per es. il ‘salame di Milano’, il ‘salame toscano’, il ‘salame di Varzi’, il ‘salame di Fabriano’, il ‘salame di Ferrara’, ecc. ecc.).
È vero infatti che la parola salame non ha più il significato generico di ‘salume’ che ebbe in passato, ma conserva pur sempre un significato piuttosto ampio e variegato, riconducibile in ultima analisi a quello di ‘salume destinato ad una più o meno lunga stagionatura costituito da un trito salato e pepato di carne e di grasso di maiale insaccato in un budello’. Tant’è che nel guazzabuglio dei numerosi salami contemporanei, (Giovanni Ballarini ne fornisce un significativo repertorio: vedi Parole a fette, Colorno PR, 2001, pp. 43-44) per distinguere doverosamente il salame di Felino dai molti altri sedicenti salami, si è reso necessario introdurre la dizione salame Felino, anche se – val forse la pena ribadirlo – per esso di solito basta dire salame, e il salumiere di turno capisce benissimo che ci riferiamo a questo e non ad altro. Possiamo anzi permetterci di affermare che tutta la folta costellazione dei nostri moderni salumi detti “salami” ruota intorno alla loro accezione nucleare e prototipica che fu quella parmigiana (o parmense). Accezione in qualche modo “consacrata” da un fatto extralinguistico di straordinaria rilevanza: che hanno tutta l’aria di essere salami parmigiani, molto simili ai moderni salami gentili di Felino, quelli duecenteschi rappresentati nel celebre bassorilievo antelamico del Battistero di Parma. Come ha osservato John B. Dancer [Giovanni Ballarini] (vedi: Il salame di Felino nato otto secoli fa, in “Gazzetta di Parma” del 27 maggio 1996), quei “due salami, di rilevanti dimensioni, sono stati certamente preparati con l’ultimo tratto dell’intestino, il cosiddetto «intestino gentile». Salami Felino di queste dimensioni sono tutt’ora attuali, anzi tra i più pregiati”. Aggiungeremo soltanto che noi Parmigiani, nel nostro dialetto, i salami di quel tipo li chiamiamo ancor oggi, e da antica data, salàm gentìl o salàm culär.
I salàm gentìl
L’aggettivo gentìl, applicato qui a salàm, vorrà dire ‘squisito, di gradevolissimo sapore’, secondo un’antica accezione che gentile, riferito a cibi, ebbe già per esempio nell’italiano trecentesco (per es. ne Il trecento novelle di Franco Sacchetti, vedi GDLI). Ma riferito in particolare a questi speciali prelibatissimi salami parmigiani l’aggettivo non sarà senza un pizzico di eufemistica ironia antifrastica. Voglio dire che l’aggettivo ‘gentile’ che, come tutti sanno, valse tra l’altro ‘nobile, alto’, sarà qui anche per non dire il contrario, cioè ‘ignobile, basso’. I salami gentili si ottengono infatti insaccando un trito di carne e di grasso suino nel tratto più basso (in senso proprio e figurato) dell’intestino retto del maiale, quello detto appunto ironicamente budello gentile. Mi risulta che ancor oggi una visita medica che comporti un’ispezione rettale sia chiamata talvolta scherzosamente visita gentile.
Ma torniamo ai salami. Guarda caso l’espressione salame gentile s’incontra già (credo per la prima volta in Italia), proprio nell’italiano-parmigiano (dovuto alla penna del “copista” parmigiano Carlo Giovannelli) di una ricetta dei secenteschi Li quattro banchetti destinati per le quattro stagioni dell’anno di Carlo Nascia, cuoco palermitano alla corte del Duca Ranuccio II Farnese. La ricetta recita “Di salame gentile vestito. Ne farai cuocere quattro e li taglierai per mezo levandoli le punte dall’una e l’altra parte”, (vedi l’edizione di Massimo Alberini, 2 voll., Bologna, 1981, p. 157). Del resto l’espressione ironica del tipo ‘budello gentile’ per dire ‘intestino retto’ è ancor oggi d’area dialettale veneta, emiliano romagnola ma anche mantovana (vedi: Ferdinando Arrivabene, Vocabolario mantovano-italiano, Mantova 1882, s.v. budèl gentil) e si spinge sporadicamente sino al marchigiano sett. (cfr. LEI – Lessico Etimologico Italiano di Max Pfister, vol. VI, p. 1256).
I salàm culär
A Parma i salàm gentìl son detti anche, con espressione non altrettanto elegante, salàm culär. Che non è soltanto parmigiana, anche se è molto probabile che proprio da Parma si sia diffusa. Si chiamano così perché si ottengono insaccando non un budello qualsiasi ma l’intestino retto del maiale, quello che in gran parte dell’Italia dialettale nordoccidentale (ma talvolta anche altrove, per es. in Abruzzo) è chiamato ancor oggi ‘budello culare’. Così detto perché costituisce l’ultimo tratto dell’intestino, quello che – absit iniuria verbis – sfocia direttamente nel culo (inteso come ‘orifizio anale’, così come già l’intendeva Dante nel suo memorabile “ed elli avea del cul fatto trombetta” riferendosi alla diabolica pernacchia anale di Barbariccia in Inferno XXI, 139). L’espressione budello culare è molto antica. S’incontra già nel toscano quattrocentesco del Burchiello e ancor prima nel trecentesco Trattato delle mascalcie, (vedi: GDLI – Grande Dizionario della Lingua Italiana di Salvatore Battaglia).
Ma per chiudere in bellezza – si fa per dire – e per non farci mancare proprio niente, diremo che nello stesso significato di ‘intestino retto’ il LEI già citato registra anche il versiliese budel culàgnero e l’umbro occidentale (a Magione, PG, per esempio) budèl kulèo ‘id.’, (cfr. Giovanni Moretti, Vocabolario del dialetto di Magione (Perugia), Prefazione di Francesco A. Ugolini, s. v. budèllo).
Il presente testo è stato pubblicato in “Gazzetta di Parma” il 30 marzo 2021 alle pp. 32-33.
Si ringrazia l’Autore per la cortese concessione a pubblicare il suo saggio su questo sito.