Videoguida LIS – Museo del Salame

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Un percorso nella Lingua dei Segni Italiana al Museo del Salame Felino

Grazie alla collaborazione con ENS – Ente Nazionale Sordi – Sezione Emilia Romagna, il Museo del Salame è visitabile con un percorso LIS. Appositi simboli dotati di QR-Code permettono ai visitatori di attivare i contenuti testuali e video utilizzando il proprio smartphone per visualizzarli.

Laura Di Gioia presenta le varie sezioni del percorso nella Lingua dei Segni Italiana e aiuta a seguire la storia del Salame Felino.

L’iniziativa è stata possibile grazie al sostegno del Lions Club Parma Ducale ed è stata realizzata nell’aprile 2023.

Il Museo del Salame è ospitato nelle cantine del Castello di Felino. Il castrum Filini, probabilmente preesistente, ma documentato solo dal XII secolo, fu ampliato e fortificato raggiungendo il massimo splendore con Pier Maria Rossi nel Quattrocento. L’antico maniero controllava le comunicazioni fra le vallate dei torrenti Parma e Baganza. Entrato in possesso del Vescovo di Parma e ceduto nel XX secolo a privati, ospita oggi un ristorante di charme. Il Museo del Salame è organizzato in cinque sezioni; il percorso di visita inizia con le testimonianze sul rapporto tra Felino ed il suo prodotto simbolo nel corso dei secoli, senza tralasciare la storia del famoso maiale nero parmigiano.

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Per Felino, l’assoluta simbiosi con il maiale risale all’età del bronzo, come documentano i frammenti ossei rinvenuti tra i reperti del villaggio terramaricolo di Monte Leoni, situato sulle colline che sovrastano il paese.

Nel II sec. a. C. Polibio annota come dalla Pianura Padana, così ricca di querce e di ghiande, provenisse la maggior parte dei suini macellati in Italia per l’alimentazione privata e per il rifornimento dell’esercito.

In epoca romana sono documentati svariati tipi di insaccati di maiale, diversi per gusto e per tipo di budello utilizzato. In seguito le popolazioni ‘barbariche’ di origine celtica e longobarda contribuirono con le loro tradizioni a rendere i salumi protagonisti degli usi alimentari.

Il Medioevo ha lasciato nel Parmense importanti testimonianze iconografiche: gli scultori dell’epoca hanno documentato nei ‘cicli dei mesi’ o dello ‘zodiaco’ raffigurati in molte chiese romaniche l’uccisione del maiale e la produzione dei salumi. Nelle cattedrali di Fidenza e di Parma è raffigurata l’uccisione del maiale e nel Battistero di Parma la formella del segno dell’Acquario mostra dei salami posti ad asciugare presso il focolare.

Un legame che si è sviluppato nei secoli fino ai tempi moderni. Nel XIX sec. nel territorio di Felino operavano già 12 produttori di salame e l’importanza della lavorazione era tale che le leggi a tutela della salute pubblica divennero sempre più frequenti e restrittive, con indicazioni sempre più dettagliate di controlli e divieti che, nei primi decenni del Novecento, concorreranno al riconoscimento del marchio Felino come sinonimo di bontà e qualità per il salame prodotto nella zona.

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Il maiale allevato fino alla fine dell’Ottocento era piccolo, nero e molto saporoso. Viveva libero nei boschi e si cibava del prodotto delle querce, le ghiande. Questo tipo di alimentazione infondeva un aroma inconfondibile e del tutto particolare alle sue carni e quindi ai salumi. Solo alla fine dell’Ottocento vennero importati animali provenienti dall’Inghilterra di stazza ben superiore e con accrescimento più rapido. Il maiale nero di Parma, meno economico e meno produttivo delle razze inglesi, ha rischiato di scomparire. In tempi recenti – salvato dopo lunghe ricerche – è stato reintrodotto e oggi si producono salumi di maiale nero di altissima qualità che ci consentono di tornare ad assaggiare sapori di un tempo.

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Escludendo le raffigurazioni artistiche, il primo documento o atto relativo al salame rintracciato a Parma risale al 1436, quando Niccolò Piccinino, condottiero al soldo del duca di Milano che qui aveva una delle sue basi operative, ordinò che gli si procurassero ‘pòrchos vigìnti a càrnibus pro sallàmine’, ovvero venti maiali per fare salami.

Nel lessico della lingua italiana il vocabolo ‘salame’ è documentato a partire dal 1542 e si ritiene che il termine sia derivato dal latino medioevale salàmen che significava “insieme di alimenti salati”.

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La sezione dedicata alla gastronomia, collocata non a caso negli affascinanti ambienti delle cucine, presenta riproduzioni di dipinti a testimoniare l’impiego gastronomico del salame a Parma.

Il salame fino al XVII secolo era consumato – come tutti gli altri salumi – prevalentemente cotto. Spalla cotta, Cotechino e Salama da sugo ferrarese sono “relitti storici” di quel sistema alimentare. Con il miglioramento delle condizioni igieniche, a partire dal XVII secolo si fa strada il consumo dei salumi a crudo, come documentato da diverse nature morte presentate in questo ambiente. Il salame era considerato il più pregiato dei salumi, tanto da entrare di diritto nella composizione di centrotavola per le nozze tra Giulio Thieni, conte di Scandiano (nel Reggiano) e Anna Eleonora Sanvitale da Sala Baganza (in provincia di Parma).

Viene, inoltre, documentato un singolare esempio di integrazione tra produzione e consumo in una azienda agricola dei Gesuiti, che, proprio per il valore tributato a questi insaccati, erano soliti offrire i propri salami in dono agli alti prelati di Roma.

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La visita prosegue nella sala grande, dove si trova la sezione relativa alla norcineria e alla produzione casalinga dell’insaccato, con la presentazione video di alcune sequenze fotografiche che raccontano tutte le fasi del rito “dell’ammazzata”. Nelle teche si può osservare un’ampia rassegna di oggetti appartenuti ai norcini e alle famiglie contadine della zona, tra i quali in particolare – sul lato destro della sala – un “mantello del norcino”, il tabarro per proteggere dai rigori dell’inverno e la sua bicicletta, caricata degli attrezzi, con cui si recava di fattoria in fattoria per svolgere il suo lavoro.

Il norcino è la persona che ha le competenze e conoscenze per uccidere il maiale. La parola norcino deriva dalla località di Norcia (in Umbria) perché da lì partivano in origine questi lavoratori nella stagione invernale per andare in tutta Italia per la macellazione del maiale. Il maiale deve invece, il suo nome a Maia, la divinità dell’abbondanza e il salvadanaio, tradizionalmente a forma di porcellino, ne riprende il significato. Il norcino era un professionista itinerante, che si spostava con i suoi attrezzi di famiglia in famiglia, di casale in casale. Per il grande rispetto che la cultura contadina nutriva nei suoi confronti, il maiale veniva ucciso con una stilettata al cuore, per non farlo soffrire, con il “coradór”, (con la o chiusa) visibile vicino alla sporta del Norcino. Veniva poi lavato con acqua bollente, spostato con slitte o bassi carretti – visibili al centro della sala – appeso alla forca – esposta sul lato sinistro della sala – e poi diviso nelle due mezzene e, successivamente, nelle altre parti.

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Ogni parte del maiale era destinata alla produzione di uno specifico salume: l’arto anteriore per la spalla; l’arto posteriore per il prosciutto o, nella bassa pianura, per il culatello e il fiocchetto. Il grasso sotto cotenna della schiena diveniva prezioso lardo; il sotto gola, impasto per cotechino e zampone; il ventre, pancetta; la parte superiore del collo, coppa. La carne magra, opportunamente macinata, costituiva la base dell’impasto per la produzione dei salami. Nella zona destra della sala sono visibili i semplici attrezzi per la preparazione dei salami: tritacarne, utilizzabile anche come insaccatrice, aghi, spago, e una insaccatrice artigianale per riempire agevolmente il budello con l’impasto.

La storia ci ha tramandato il detto che ‘del maiale non si butta via niente’ ed in effetti in un’economia rurale ogni elemento dell’animale aveva una sua funzione, persino le setole che venivano utilizzate per le spazzole. Tutto ciò che avanzava, tolti gli organi, le unghie e le setole, serviva per realizzare un ulteriore salume la ‘cicciolata’. Nel museo sono visibili due esemplari di presse per cicciolata, uno nel locale della cucina e uno nella successiva sala del percorso espositivo.

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La sala successiva presenta la tecnologia di produzione, descrivendone le caratteristiche salienti dalle origini al periodo pre-industriale, fino alla tecnologia attuale con la “carta d’identità” del prodotto odierno; al centro della sala troneggia una grande macchina insaccatrice da salami di colore rosso, utilizzata in una delle prime industrie salumiere del territorio di Felino. Nella stessa sezione sono presenti informazioni sulla vendita e commercializzazione del salame di Felino a partire dal Settecento.

Il salame di Felino veniva preparato secondo una successione di fasi ben precise. La carne macinata veniva mescolata con il sale e la concia e amalgamata col vino bianco. Nel salame di Felino c’è anche il pepe, spezia rara e costosa che ci fa comprendere il valore commerciale e gastronomico attribuito nei secoli a questo salume. Dopo la concia, l’impasto veniva inserito nell’insaccatrice e da qui nel budello. I salami dovevano asciugare velocemente o vicino al fuoco o in altro ambiente caldo. Dopo pochi giorni di asciugatura entravano nella cantina per essere stagionati. La lavorazione avveniva nel periodo più freddo dell’anno: non essendoci altri sistemi di conservazione, si doveva utilizzare obbligatoriamente il freddo dell’inverno.

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L’ultima sala è destinata alla visione del video del Museo, che presenta momenti rievocativi dell’antica tecnica di produzione seguiti da una sequenza sulla produzione odierna.

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Tornando verso l’ingresso, nella sala grande i pannelli sul lato sinistro presentano, attraverso documenti e immagini, alcune curiosità legate al salame: la storia dell’esercito del Ducato di Parma, i cui militari, più impegnati a mangiare che a combattere, erano stati soprannominati “salamari” o l’umorismo di Guillaume Du Tillot, primo ministro del Duca di Parma nella seconda metà del Settecento, che, insignito del titolo di marchese di Felino disse di essere a capo “di un paese di salami”. Va, ancora, ricordato che nel dialetto parmense il maiale aveva due nomi: da vivo era detto “gozén”  (pronuncia: gosé), mentre da morto, in segno di grande rispetto, diveniva “al nimèl”, l’animale per eccellenza, quello capace di assicurare la sopravvivenza della famiglia contadina anche negli anni di carestia.

La visita al museo si completa degnamente con un menu a base di salame presso il ristorante di charme del Castello.

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